Responsabilità penale medica e principio di affidamento

Responsabilità penale medica e principio di affidamento
08 Gennaio 2018: Responsabilità penale medica e principio di affidamento 08 Gennaio 2018

Deriva dal principio dell’affidamento il fatto di non essere obbligati a conformare il proprio comportamento in funzione del rischio di condotte colpose altrui, dovendosi invece confidare sul fatto che gli altri agiscano nell'osservanza delle regole di diligenza loro proprie. Questo principio assume particolare importanza in ambito medico, laddove l’intervento di molteplici figure professionali pone il problema di verificare in quali ipotesi, in caso di esito infausto, il singolo medico possa “beneficiare” dell’affidamento sulla corretta esecuzione dei compiti altrui ovvero in quali altre, invece, sia chiamato a rispondere anche per le manchevolezze dei colleghi. Sul punto si è di recente espressa la Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione – Pres. Rocco Marco Blaiotta - con la sentenza n. 50038/2017, depositata in data 10 ottobre 2017. Nel caso scrutinato, il Tribunale di Salerno e la Corte di Appello poi avevano condannato quattro medici per il reato di cui agli artt. 41, 110, 113 e 589 c.p. perché, mediante condotte indipendenti e/o in cooperazione tra loro, avevano cagionato la morte di un paziente, dovuta a reazione emolitica acuta post-trasfusionale in conseguenza della trasfusione di due sacche ematiche non compatibili con il suo gruppo sanguigno, e ciò per colpa generica, consistita in negligenza, imprudenza ed imperizia, nonché per colpa specifica, consistita nella violazione delle linee guida raccomandate dal Ministero della Salute e adottate nell’ambito di uno specifico protocollo per la prevenzione da errori trasfusionali. L’iter eziologico era stato innescato da un tecnico addetto al Servizio di Trasfusione che aveva consegnato all’infermiere del Reparto Ortopedia le due sacche destinate ad altro paziente, contenenti sangue di gruppo incompatibile con quello del paziente. Un medico in servizio presso il Reparto di Ortopedia, non aveva a sua volta controllato che il gruppo sanguigno del ricevente fosse compatibile con quello della sacche ricevute in consegna. Parimenti, un altro medico in servizio presso il Reparto, aveva ripetuto l’errore commesso dal primo collega, disponendo la somministrazione della seconda sacca, omettendo di porre una diagnosi differenziale e di controllare la compatibilità sanguigna. Infine, il medico anestesista rianimatore, intervenuto per una consulenza, aveva omesso di approfondire le cause della crisi ipertensiva per la quale era stato chiesto il suo intervento e di ricercare autonomamente la causa di tale crisi. L’errore relativo all’incompatibilità del gruppo sanguigno delle sacche ematiche - primo, dal punto di vista cronologico, della serie causale che aveva condotto alla morte del paziente - era stato quindi innescato dal tecnico sunnominato. Tuttavia, a parere dei Giudici di primo e secondo grado, tutti gli altri medici coinvolti avevano in qualche modo contribuito alla realizzazione dell’evento. La sentenza della Corte territoriale veniva quindi impugnata da tutti gli imputati, i quali lamentavano, a vario titolo, l’equiparazione delle loro condotte, senza diversificazione di ruoli, qualifiche e mansioni, la sopravvenienza di cause (identificabili appunto nelle condotte degli altri colleghi intervenuti) idonee da sole a determinare l’evento morte e il loro affidamento sull’operato degli altri colleghi. La Corte di Cassazione, tuttavia, ha ritenuto infondati tutti i ricorsi promossi dagli imputati, quantomeno sotto il profilo dell’assenza di responsabilità nella causazione dell’evento. I Giudici di Piazza Cavour hanno anzitutto rilevato come le condotte contestate ai medici “si inseriscano tutte nella medesima area di rischio, correlata tanto alla consegna delle sacche contenenti sangue incompatibile con quello del paziente, quanto all’ordine di procedere alla trasfusione, quanto all’omessa diagnosi differenziale”. Per constante giurisprudenza, infatti, l’errore nella trasfusione di sangue di gruppo RHA+ ad un paziente con gruppo RH0+ è di una tale gravità da essere “dotato di forza propria nella determinazione dell’evento, anche rispetto ad un precedente errore medico” (Cassazione penale, Sez. V, 27.01.1976, n. 6870, Nidini). Tutte le condotte collegate con la trasfusione di sangue (consegna delle sacche ematiche, operazioni di trasfusione, intervento di rianimazione), quindi, devono considerarsi afferenti allo stesso “grado di rischio” e, pertanto, vanno equiparate senza alcuna diversificazione di ruoli, qualifiche e mansioni. Ciò posto, secondo la Corte è del tutto “inconferente porre, nel caso in esame, la questione della sussistenza o meno di cause sopravvenute idonee da sole a determinare l’evento, laddove si osservi che il rischio conducibile a ciascuna delle condotte ascritte agli imputati non è mai un rischio nuovo ma è sempre il medesimo, tipicamente evolutosi nei successivi passaggi verso l’evento già in origine prevedibile”. In altri termini, il processo causale è giunto al suo epilogo drammatico “senza che siano intervenuti fattori eziologici nuovi ed eccezionali, idealmente separabili da quello originario”, atteso che gli errori commessi in serie dai medici hanno rappresentato solo lo sviluppo dell’originario iter eziologico, senza una “soluzione di continuità”. Posta pertanto la pari gravità delle condotte dei medici, realizzazione sinergica del rischio creato dal primo, con un iter eziologico mai interrotto, la Cassazione ha infine escluso l’applicabilità del principio di affidamento nel caso di specie. Secondo la Corte, infatti, il principio de quo non è applicabile ove “l’agente non abbia osservato una regola precauzionale ove si innesti l’altrui condotta colposa”.In tema di colpa professionale, qualora ricorra l'ipotesi di una cooperazione multidisciplinare, ancorché non svolta contestualmente, ogni medico è tenuto al rispetto delle regole di cautela e delle leges artis previste con riferimento alle sue specifiche mansioni. Ove ciò non accada, il medico non potrà utilmente invocare l’affidamento nella correttezza dell’attività svolta dal collega. Nel caso concreto, dunque, l’errore delle sacche di sangue che aveva determinato l’evento morte, pur innescato dal tecnico, si era inserito in un iter eziologico cui anche i diversi medici intervenuti avevano contribuito non rispettando le regole di diligenza loro rivolte. Ricordiamo, peraltro, come in realtà, in tema di attività medica, la diligenza richiesta al singolo sia notevole, atteso che questi è tenuto, oltre che al rispetto delle regole connesse alle specifiche mansioni svolte, anche all'osservanza degli obblighi derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune e unico, di talché egli “non può esimersi dal conoscere e valutare l'attività precedente o contestuale svolta da altro collega, sia pure specialista in altra disciplina, e dal controllarne la correttezza, se del caso ponendo rimedio ad errori altrui che siano evidenti e non settoriali, rilevabili ed emendabili con l'ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio” (cfr., tra le altre, Cassazione penale, Sez. IV, 06.02.2015, n. 30991). In conclusione, la Giurisprudenza di legittimità ritiene applicabile il predetto principio di affidamento solamente nell’ipotesi in cui il singolo medico abbia svolto le proprie mansioni nel pieno rispetto delle regole di cautela e delle leges artis lui rivolte, dopo aver tuttavia controllato anche l’attività operata dal collega e posto rimedio ad eventuali errori “evidenti e non settoriali”. E’ chiaro che in questi casi la “pretesa” di un controllo così accurato anche sull’operato altrui trova giustificazione nella primaria importanza del diritto alla salute, per la cui tutela il paziente si affida totalmente a chi è professionalmente competente a preservarla.

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